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Mezzo secolo di feudo parlamentare


A pensar male si fa peccato, diceva Andreotti.

Eppure se c’è un gioco da ‘storici’ che funziona sempre molto bene in Italia, in qualsiasi settore della classe dirigente si indaghi e più o meno in qualsiasi epoca storica, o almeno fin da periodi antichissimi e forse pre-storici, è quello dei ‘cognomi’.

Scorrendo la storia delle nostre classi dirigenti non è affatto difficile incappare in omonimie che all’inizio sembreranno delle casuali similitudini, di quelle che pure capitano negli incroci fatali del destino.

Ingenuamente il giovane storico, non avvezzo alla storia patria, penserà a rocambolesche combinazioni fortuite dettate dalla casistica più strampalata.

Lo storico più consumato sa benissimo che invece nove volte su dieci si è semplicemente incappati in uno dei riflessi più ovvi del tanto decantato familismo amorale all’italiana.

I dirigenti, i leader politici ed economici, pur passando le generazioni, hanno spesso gli stessi cognomi e non è MAI un caso del destino.

E nemmeno una improbabile coincidenza: è che in questo paese il destino viene aiutato moltissimo nella sua folle corsa cieca verso il futuro.

Indirizzato nel favorire sempre gli stessi nomi, generazione dopo generazione, in qualsiasi settore della vita civile ed economica.

Vale per le cattedre nelle università, per le carriere nel giornalismo e nel mondo della cultura; ma ovviamente anche per la dirigenza d’impresa e soprattutto per la carriera politica.

La percentuale di figli d’arte è tanto elevata in Italia che talvolta ci si chiede fino a che punto la stessa rivoluzione francese dell’89 abbia in qualche modo inciso su tali equilibri secolari, su un familismo che sembra tanto radicato quanto atavico e ineliminabile nel nostro paese, anche a distanza di secoli dalla fine formale dei regimi basati sul ‘feudo’ e sulla linearità di sangue delle famiglie regnanti.

Capita che oggi, mentre seguivo i dibattiti pubblici sulle primarie del PD, sono andato a pensare – guarda tu il caso – alle fortune politiche di uno dei più noti e temuti leader politici dell’ex Pci, ancora tanto quotati nel Pd da poter esprimere ufficialmente una delle candidature ufficiali, quale quella di Cuperlo.

Mi riferisco a Massimo D’Alema.

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Bene. Chi conosce un minimo la storia del Pci sa per certo che D’Alema Massimo ha iniziato a fare politica da giovanissimo, scalando buona parte degli incarichi del partito fino ad ottenere la fiducia dello stesso Berlinguer, amatissimo segretario comunista poi scomparso nel 1984.

Ma chi conosce meglio la storia del Pci saprà anche che D’Alema Massimo non arriva a lavorare nel Pci per puro caso, o per mera affezione ideologica e del tutto al di fuori di alcuno stimolo familiare.

Diremo invece che anche Massimo è figlio d’arte, dal momento che il padre Giuseppeex partigiano e fondatore del partito comunista clandestino nel ravennate, durante il fascismo – aveva già speso l’intera vita al servizio del partito in cui il figlio vivrà la sua fortunata carriera politica, prima sotto la bandiera rossa del pci e poi sotto quelle rosso-stinto e rosso-accennato-ma-tendente-al-bianco a quella succeduta, ovvero dal Pds fino all’attuale Pd (dove l’astro di D’Alema sembra attenuato, anche se ancora ‘esprime’ candidature per la segreteria politica, appunto).

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Fin qui, direte voi ingenui lettori, tutto bene. Il ‘gioco dei cognomi’ è crudele e deliberatamente cieco, e non può essere preso come canone di merito nella valutazione di grandi figure politiche di generazioni anagraficamente e storicamente diverse.

Eppure.. eppure quello dei ‘cognomi’ che si seguono nei vertici dei ruoli di potere, generazione dopo generazione, non è un giochino tanto campato per aria, in realtà.

Soprattutto perchè ogni storico che si rispetti, di fronte al ‘familismo’ quello vero, che non guarda a bandiere o colori di partito ma piuttosto alla sostanza concreta, quella che riempie la pancia e il conto in banca, non si limiterebbe mai a controllare il susseguirsi di cognomi simili nelle scelte per gli incarichi migliori all’interno della classe dirigente.

Uno storico che si rispetti andrebbe a guardare anche le date e le circostanze che hanno giustificato il susseguirsi generazionale dei soliti nomi nei posti migliori, quei posti tra i più comodi della nostra tanto cara – ma irrimediabilmente ‘corrotta’ – società italiana.

Ho detto uno ‘storico degno di rispetto’: che sarebbe qualifica onorevolissima se solo si avesse la pazienza di non ‘pensar male’ in anticipo, proprio per evitare di non far peccato senza conoscere nel dettaglio biografie e circostanze che potrebbero sempre ‘giustificare’ le omonimie alla luce di ragioni più alte dell’italianissimo principio del ‘tengo famiglia’.

Ma io non mi cimento e non mi cimenterò oggi nelle biografie dei politici D’Alema che si sono succeduti in Parlamento, perchè non avrei comunque tutto il materiale necessario per cogliere le idiosincrasie del caso che – con tanta precisione – ha voluto modellare il destino politico dei D’Alema, entrambi fortunati dirigenti del partico comunista, prima, e dei suoi derivati dopo la caduta del muro berlinese e la fine del secolo breve.

Mentre invece mi sono preso la briga di fermarmi a guardare alle semplici date che interessano i due. Tanto per capire se almeno sul piano propriamente cronologico le due carriere fossero separate da confini temporali e percorsi biografici distanti e distanziati, a dispetto della comunanza di cognome e dall’adesione al medesimo partito.

Ma nemmeno per sogno.

Giuseppe D’Alema, già dal primissimo dopoguerra dirigente comunista nei ranghi dell’organizzazione di partito, entra in Parlamento con la quarta legislatura, il 16 maggio 1963.

Viene rieletto per quattro legislature di seguito e rimane deputato ininterrottamente fino alla fine dell’ottava legislatura, che viene sciolta l’11 luglio 1983.

20 anni di carriera parlamentare.

Bene, cosa succede nel nostro cinico gioco che cerca la coincidenza dei nomi e delle date per parlare una volta di più di familismo amorale della classe dirigente italiana, cavallo di battaglia caro a tanta storiografia di sinistra?

Capita che D’Alema figlio entra in parlamento già nel luglio 1987 per rimanervi senza soluzione di continuità fino alla fine della sedicesima legislatura, che risale solo allo scorso dicembre 2012.

Ovvero si vuol far notare che dal 1963 fino al 2012 – 49 anni in tutto – abbiamo SEMPRE avuto un D’Alema in Parlamento, salvo quattro striminziti anni di pausa tra una generazione e l’altra, tra il 1984 e il 1987.

Padre e figlio che per 49 anni hanno rappresentato il popolo italiano nella massima istituzione democratica del paese, il parlamento.

Il posto dove si fanno le leggi che valgono per tutti, in nome di tutti e nel rispetto di ciascuno.

Dove si accede atttraverso il voto popolare, ci sembra.

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Allora al di là del giochino dei cognomi e delle date, che rimane un gioco da addetti ai lavori, uno sfoggio di erudizione fine a se stesso, emergono due stringenti scenari di analisi.

Delle due una dovrà pur essere vera.

O i D’Alema – padre e figlio – sono stati dei deputati maledettamente bravi e insostituibili, agli occhi dei loro partiti e dei loro elettori, tanto da meritarsi una permanenza parlamentare che irride alle dimensioni di quasi due ergastoli, sul piano della vita mortale e secolare delle persone comuni.

Oppure c’è qualcosa della repubblica dei partiti che ancora ci sfugge largamente; un ‘familismo’ ambientale e biografico che non solo affonda nei caratteri antichissimi della morale pubblica delle nostre classi dirigenti a tutti i livelli, ma che supera di gran lunga gli steccati ideologici vecchi e nuovi.

Che non coinvolge solo i vecchi ceti borghesi – o ancora francamente feudali – delle classi dirigenti liberali di matrice tardo-ottocentesca; ma piuttosto di un familismo amorale che ha attraversato intatto il Novecento, cambiando sembianze quel tanto che fosse necessario per convolgere tutti i livelli della amministrazione statale, al di là delle collocazioni e delle connotazioni politico-ideologiche, o ancora peggio rafforzato da quelle stesse continuità politiche.

Un familismo che riscopriamo modernissimo e mai banale, ogni qual volta che ci viene in mente di giocare per qualche minuto a quell’ozioso giochino da storici di accostare cognomi e date atttraverso i decenni, tanto per vedere se il caso non sia distrattamente incappato in qualche disdicevole coincidenza.

Coincidenze che chiaramente non cessano mai di verificarsi, da diversi secoli a questa parte e in barba a qualsiasi sommovimento politico, istituzionale, culturale o economico.

Coincidenze, omonimie e cronologie che saranno sempre smentite dalla più nobile delle nobili intenzioni, dalla più meritoria meritocrazia del merito.

E’ noto che l’invidia e la malizia degli uomini sia ben più appiccicosa – nei giudizi pubblici – della nuda verità che si evince dai fatti in quanto tali: quindi sarebbe sbagliato ritenere che D’Alema figlio fosse meno meritevole del padre di fronte all’incarico parlamentare.

Semplicemente, non è QUESTO il punto.

Il punto è che non avremmo dovuto confrontarci con questo malizioso e immeritato dubbio; il familismo ha già vinto se si possono confrontare le generazioni che permangono nelle loro posizioni di potere, in più di mezzo secolo di vita politica italiana e nell’epoca più recente, cioè fino a nemmeno un anno fa.

Non ci sono scuse.

49 anni di seggio parlamentare tra padre e figlio sono già una sentenza storica che parla da sola, in materia di ‘politica dei partiti’ e di nepotismo all’italiana, stavolta condito in salsa rossa.

Non me ne voglia D’Alema figlio, che naturalmente era tanto pieno di sè già nei primi anni ’80 ed oggi non potrebbe certamente guardare alla sua biografia personale con il distacco necessario per ragionare sulla sua soggettiva esperienza di dirigente politico, e sulla sua fortunata carriera di parlamentare.

Ma a ben guardare le carriere dei ‘figli’ sono SEMPRE uno svantaggio per le società che le permettono, quando sono intrecciate/favorite in stretta continuità con quelle dei ‘padri’.

Non c’è bisogno di esser comunisti per comprendere l’iniquità del familismo. Basterebbe esser sinceramente democratici.

Ecco. Basterebbe; ma non è mica dato.

Perchè?

Perchè malauguratamente qualche tempo fa avevo fatto una piccola indagine anche sul padre di Renzi.

Come potete ben immaginare in una giornata come oggi i frutti di un’analisi del genere, sia pure fatta in maniera superficiale e con mezzi di fortuna, sarebbero certamente non molto migliori di quanto riportato qui, per puro gusto letterario e senza nessun astio pre-ordinato contro la famiglia D’Alema, passata, presente o futura.

Anche Renzi, incredibilmente e a dispetto dei suoi accenti moderni e rottamatori, è decisamente figlio di suo padre.

Cari compagni, fatevene una ragione.

Gli uomini di potere sono raramente dei figli di nessuno, nella storia.

E il seme non casca quasi mai troppo lontano dall’albero.

Quindi è tanto vero che a pensar male si fa peccato, quando si tagliano dei giudizi storici sulla base di ‘pregiudizi’ morali/intellettuali stabiliti su base socio-antropologica, e per ‘partito preso’.

Si fa peccato ma ci si azzecca quasi sempre, però, diceva ancora Andreotti.

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