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I manicomi criminali in Italia e la cultura positivista


Riporto un paio di paragrafi da un saggio apparso alcuni anni fa. Si discute a proposito di storia dei manicomi criminali in Italia agli inizi del ‘900.

Per la cultura positivista di quel periodo i manicomi criminali che, contrariamente a quanto accadeva in Italia, già da metà Ottocento erano stati istituiti in alcuni paesi europei, rappresentavano uno dei più agognati esiti istituzionali delle teorie criminologiche, un campo di sperimentazione e concretizzazione delle teorie lombrosiane senza precedenti.
L’antropologia criminale aveva elaborato e diffuso un nuovo modello di criminale, composto anche di individui che non erano responsabili delle loro azioni ma il cui comportamento delittuoso era determinato da fattori innati; persone che portavano scritti sui corpi i segni della loro degenerazione. Uomini e donne che quindi – come chiedevano gli antropologi criminali in quegli anni – bisognava sottrarre all’ordinario sistema punitivo (anche perché ne turbavano il funzionamento) per essere, invece, affidati ad un nuovo tipo di istituti di custodia e cura: i manicomi criminali.
L’istituzione dei manicomi criminali, quindi, era fortemente voluta dai seguaci dell’antropologia criminale anche perché avrebbe di fatto contribuito a confermare l’esistenza di quella nuova tipologia di delinquenti, i «delinquenti-nati», inventati da quella disciplina; avrebbe reso valido quel corpus di conoscenze che era alla base della criminologia positivista e che tanta opposizione stava trovando tra i seguaci della scuola penale classica italiana.

Laura Schettini, La misura del pericolo. Donne recluse nel manicomio giudiziario di Aversa (1931-50), in Dimensioni e problemi della ricerca storica, n. 2/2004, La Sapienza, Roma 2004, p. 297.


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